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L’indicibile trauma e ossessione della Verità



Durante le interviste che abbiamo raccolto, siamo rimasti colpiti da uno specifico modo di raccontare la propria storia: se alcuni aspetti del viaggio migratorio - come ad esempio le date, i luoghi, le rotte - sono narrati con una precisione fortemente dettagliata, altri sono del tutto sottratti dal racconto. Frequentemente nelle parole delle persone intervistate ricorre l’espressione “quel che posso raccontare”, come a indicare qualcosa di taciuto che non è possibile comunicare. Dentro a questa espressione si nasconde molto più di quanto sembri ad un primo sguardo e questa ricorrenza, insieme a quei silenzi densi di dolore, ci hanno spinti a rivolgerci al centro Franz Fanon per un workshop di formazione sulle memorie traumatiche.


“Come ti avevo detto la mia storia è una storia molto triste e molto...lunga ma… Come diciamo, le cose più importanti sono… è quel che possiamo raccontare. Quindi il resto non ha importanza, perché la vita va avanti e anche noi dobbiamo andare avanti. [...] Ho fatto un anno sulla strada, ho avuto un po’ di difficoltà, di prigione, di aggressione, della sofferenza… Ma io ho creduto sempre in quello che voglio, perché la vita è così: devi credere sempre. Da quando sono entrato in Libia ho fatto prigione di due mesi poi c’è una persona, un signore, mi ha aiutato, mi ha dato la possibilità per attraversare il Mediterraneo. Poi di là ho avuto un incidente perché abbiamo fatto una settimana sull’acqua. Eravamo 130 persone. 104 morti, 26 vivi. Io ero uno di loro, di quelli che si son salvati… Poi… per quello che da quando sono arrivato qua ho preso la decisione di dimenticare tutta la sofferenza per andare avanti ma è difficile perché quando attraversi qualche difficoltà, qualche volta è normale che ti viene dei pensieri soprattutto quando sei solo, non hai nessuno a fianco di te… Quindi molto complicato, mi sembra che è una cosa che è difficile da dimenticare [...]”

(Diaoune Muhamad, 1999. Arrivato in Italia nel 2016)


Ogni percorso di vita vissuto dai richiedenti asilo porta con sé ricordi traumatici delle violenze subite. Le esperienze che determinano lo strutturarsi di questi ricordi (e di altrettanti rimossi) possono essere varie: la partenza dal paese d’origine, il viaggio intrapreso, il senso di precarietà della propria esistenza, le torture, la sofferenza che non si allevia nemmeno nel paese di approdo, complice la burocrazia legata all’ottenimento dell’asilo.

Dall’esperienza psicoterapeutica del centro Fanon abbiamo appreso che la narrazione della propria esperienza di migrazione può essere in certi casi una forma terapeutica di superamento del dolore; tuttavia l’atto di raccontare - in modo preciso e dettagliato - è anche la principale prova richiesta dalle istituzioni. Per ottenere la protezione internazionale è infatti inevitabile testimoniare la propria esperienza davanti all’asimmetria di potere delle istituzioni giudicanti. Essa viene sottoposta al vaglio di una commissione al fine di attestarne la veridicità poiché, secondo i regolamenti internazionali, solo chi può certificare la propria storia di violenza ha diritto ai documenti. Per essere considerato “vero”, il capitale narrativo della propria storia deve rispondere a criteri di attendibilità, coerenza e plausibilità e talvolta la richiesta di “fornire prove tangibili” delle violenze subite, si spinge fino all'esibizione di segni fisici sul corpo, che possano sostenere l’incontrovertibile realtà della storia raccontata.


Come prevedibile, questa richiesta di verità da parte delle autorità collide in modo rovinoso con le memorie traumatiche di cui queste persone sono portatrici. La preparazione per l’udienza con la commissione giudicante sottopone i richiedenti asilo all’esperienza forzata di rivivere i propri ricordi, generando nella migliore delle ipotesi forte stress, forme di ansia e altro genere di manifestazioni psicofisiche di malessere. Il trauma, per sua definizione, si manifesta attraverso ricordi dell’esperienza vissuta che hanno contorni sfumati, simili per certi versi alla fisionomia di un sogno. Per la persona che ha vissuto il trauma i ricordi sono come “danneggiati” dalla violenza, pertanto non è così semplice definire in modo preciso gli eventi, che rimangono spesso avvolti nel dubbio e attraversati da domande come: “mi è successo veramente quel che mi ricordo?”, o anche “quel che mi ricordo è realmente accaduto?”. Nella nostra esperienza, il trauma subito è emerso attraverso quell’espressione, “quel che posso raccontare”, che racchiude in sé tutta l’indicibilità del proprio vissuto, come ad indicare quel che mi sembra sia successo e quel che posso esprimere con le parole.


Per questa ragione nella raccolta di memorie traumatiche è necessario approcciarsi alle persone con grande cautela, ammettendo tutti i limiti di una narrazione intrisa di sofferenza la cui finalità non dovrebbe essere quella di dimostrare una verità - come richiesto nelle udienze per la richiesta di asilo - quanto piuttosto raccontare una vicenda umana complessa e dolorosa. I diversi contesti di approdo dovrebbero tenere in considerazione le conseguenze psicologiche e i potenziali danni che le istituzioni preposte a giudicare le richieste d’asilo con il loro approccio indiziario hanno nel processo per l’ottenimento dei documenti di protezione internazionale.


Questo articolo è stato scritto da Lapsus.


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